LE RAGAZZE DEL 1968

di Davide Gubellini

Un racconto di Davide Gubellini per rincordare una grande vittoria sportiva (ma non solo…) che rischierebbe di essere dimenticata.

“LE RAGAZZE DEL 1968

“Oh Davide, andiamo a vedere le donne che giocano al futbal?”

Quella domenica il babbo era particolarmente allegro.

Avrò avuto 8 anni, perchè ricordo che ero in terza; i miei idoli erano Pascutti, Bulgarelli e Perani.

Però anche alla Birgit, la biondina del banco di dietro, ci pensavo spesso.

Quando mi guardava giocare al pallone, nel cortile della scuola, mi venivano le orecchie rosse, chissà perché.

“Oh, alora, vieni? Tanto io ci vado lo stesso.”

“Ma babbo, le donne giocano anche loro al pallone?”

“Ma certo, perché no? E poi sono anche bravine, mi hanno detto. Dai, che andiamo”.

 

Era un bel pomeriggio di primavera.

Il Bologna, quello “vero”, giocava in trasferta ed io, per mio padre, ero troppo piccolo per andare al seguito, dopo chi la sentiva la mamma…

Fu così che, mano nella mano, a piedi, perché lo Sterlino era vicino a casa, mio babbo mi portò a vedere “le ragazze del Bologna”.

Allora c’era ancora il glorioso campo di calcio intitolato ad Angelo Badini, lo sfortunato campione degli anni Venti; era lo stesso impianto che aveva visto il primo scudetto vinto dal Bologna, nel 1925.

C’era una piccola tribuna nella quale si era sistemato un pubblico esclusivamente maschile, particolarmente interessato. Nessuna signora, pochi anche i bambini.

Entrarono in campo di corsa, le ragazze, accompagnate da un timido applauso di incoraggiamento.

Tutte in fila, si mostravano orgogliose delle loro divise da gioco, la tradizionale maglia rossoblù, in tutto simile a quella dei maschi.

La squadra avversaria era quella del Milan.

Anche loro vestivano una divisa uguale a quella dei giocatori delle figurine Panini, allora compagne universali e quotidiane della nostra infanzia.

Come tutti i bambini di allora, di calcio capivo poco, a parte il gol.

Però percepivo, forse solo intuitivamente, il senso dell’impegno agonistico e della lealtà nei contatti di gioco.

Nelle fasi più concitate, il pubblico rumoreggiava e io mi ritrovavo a guardare queste facce sconosciute inveire contro l’arbitro, ovviamente maschio, data l’epoca.

”Babbo, ma perché la numero 10 gioca con gli occhiali? Non si può” dissi, memore delle eterne raccomandazioni della mamma; quando andavo in cortile a giocare mi diceva sempre: “Togliti gli occhiali, veh? Che se ti arriva una spallonata, lo vedi, poi…”

“Ma dai, si vede che gli serve.” tagliò corto il babbo, senza togliere lo sguardo dal campo.

Mi stavo divertendo.

Il babbo mi diceva i nomi delle giocatrici che aveva letto su “Stadio”, la mattina.

C’era la portiera Mazza, che ne aveva presi due o tre, di tiri difficili.

C’era la terzina Garulli, che non mollava un centimetro alla punta avversaria, dato che il calcio all’olandese sarebbe stato inventato solo diversi anni più tardi.

C’era la Bonfiglioli, che interpretava alla perfezione il ruolo di libero.

C’era la mezzala Marchesini, con i suoi bei passaggi spesso decisivi.

Dei ruoli io capivo poco, nonostante le spiegazioni del babbo.

E poi io tifavo soprattutto per la Nonni, la centravanti, perché anche io portavo gli occhiali, come lei.

Era molto brava.

Lo avevo capito guardando gli spettatori, perché quando le arrivava il pallone, cresceva come una specie di brusio, tra le gente, per l’attesa di ciò che poteva capitare.

E infatti, quasi alla fine, proprio lei, la ragazza che giocava con gli occhiali, fece un bel tiro, da dentro l’area, sul quale la portiera avversaria non riuscì ad arrivare.

Gol!

Il babbo mi abbracciò, tutti esultavano.

 

Improvvisamente, in quel momento, capii che per i presenti non c’era più nessuna differenza tra lo Sterlino e lo Stadio Comunale, come si chiamava allora il Dall’Ara.

L’entusiasmo per quelle ragazze non aveva nulla da invidiare a quello regalato dai campioni della serie A.

Compresi che lo sport, la gioia dello stare insieme, di giocare sfide leali con sé stessi e con gli altri, è uguale e unisce tutti, uomini e donne.

Forse affermarlo oggi può apparire scontato e anche un po’ retorico.

Ma allora era un concetto ancora da acquisire.

E ora, dopo una vita arricchita dallo sport, desidero rendere un omaggio a quelle ragazze che vidi giocare a calcio, quando ero ancora un bambino.

Donne orgogliose di scendere in campo, di sfidare tabù e pregiudizi.

Campionesse nello sport, capaci di vincere due titoli italiani, nel 1968 e nel 1969, con la UISP, all’epoca un campionato nazionale riconosciuto ufficialmente.

Campionesse in campo, campionesse nella vita.

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